Agrigento

Alessandria della Rocca, tradizioni culinarie: arriva il tempo di ” Li Cuddrureddri “

Tra le tradizioni popolari alessandrine si annoverano copiosamente quelle culinarie legate principalmente al mondo contadino ove semplici ingredienti che ogni famiglia era in grado di reperire con facilità costituivano la base fantasiosa per creare squisitezze che allettavano il palato. Li Cuddrureddri, legati alle festività natalizie, ne sono un esempio.  I ricordi vanno a qualche decennio addietro, quando il rituale vedeva intere famiglie radunarsi attorno al focolare domestico, non solo in senso figurato, che riscaldava l’animo, lo spirito ed il corpo, nelle fredde giornate di dicembre. Rituale che, seppur con modifiche dettate dal progresso, anche tecnologico, si ripete nelle famiglie che ancor oggi tengono a custodire gelosamente e a tramandare con cura. E così l’Adventus costituiva il tempo in cui ci si preparava cristianamente a vivere il Natale in cui era consentito commettere qualche peccato di gola. La preparazione di cuddrureddri e mastazzola richiedeva molto tempo e cura sia per la preparazione dell’impasto che del ripieno.  Si prendevano i fichi che nei mesi precedenti erano stati lasciati ad essiccare in un crivu d’occhiu e si provvedeva a tritarli con l’arbitiu, che ogni famiglia teneva riposto in un angolo della casa. Veniva inserito un piatto in ferreo bucherellato, diverso da quello che solitamente si utilizzava per fare la tagliarina o gli spaghetti ed ecco che dopo aver girato con forza dalla parte inferiore usciva la pasta di fichi cui veniva aggiunto zucchero e scorzette di arancia, che sarebbe servita per il ripieno. Un tipo diverso di ripieno era costituito dalle mandorle che, dopo essere state sbucciate, asciugate in forno e tritate, veniva unito ad un composto fatto da melone e zucchero. La base della pasta era costituita dall’impasto di farina, uova, saimi, latte ed ammoniaca. Il segreto stava nella filatura: più si lavorava meglio sarebbero venuti i dolci. Si lasciava riposare e poi, quando tutto era pronto iniziava il vero e proprio rito. Una catena di montaggio vedeva le nostre mamme e zie alle prese con un lavoro che si protraeva per un giorno. C’era che stendeva la pasta ottenuta, chi si preoccupava di mettere il ripieno che con un altro strato di pasta sovrapposto lo copriva e chi iniziava a dare le forme volute con formelle, siano essi a forma di rombo o cerchio, mentre ci si assicurava che i lembi fossero perfettamente chiusi. Potevano darsi altre forme, a ferro di cavallo o a forma di rettangolo le cui estremità venivano rigorosamente tagliate con un coltello o con una rotellina dentellata. Quando il forno, ovviamente a legna, era pronto si infornavano le prime teglie, facendo attenzione alla cottura. Una volta sfornati si disponevano ad uno ad uno sul tavolo o su un ripiano, per farli raffreddare, facendo attenzione a ben disporle, attesa la loro friabilità. A parte si preparava la marmurata, una sorta di glassa bianca a base di albume d’uovo, zucchero e qualche goccia di limone, la cui preparazione era manuale e richiedeva tempo visto che avveniva con l’aiuto di una forchetta ed i frullatori elettrici erano ancora a venire. E qui ecco che un ruolo era riservato ai ragazzini. Veniva loro dato il via e subito di corsa per strada, alla ricerca di una gallina che tranquillamente stava razzolando e che alla loro vista si “straviava”. Un mio ricordo personale va al momento in cui assieme ad altri, mentre le rincorrevamo le galline per strapparle qualche penna, puntualmente allarmavamo una nostra vicina di casa, la zza Annicchia, vivace personaggio della via Montevideo, che ci assicutava con un bastone proprio perchè facevamo straviari le sue galline, riconoscibili dalla taccaglia rossa che lei aveva messo su un’ala. E dopo una lunga corsa su e giù per la strada acciotolata, con quel trofeo in mano, salivamo le scale pronti per mettere con quelle penne la marmurata sopra li cuddrureddi. Infine una pioggia di colori era costituito dal ciminu (diavolina) che completavano l’opera. Non era ancora finito. Li cuddrureddri si reinfornavano per fare asciugare la marmurata ed una volta raffreddati venivano riposti dentro le coffe o altre ceste di vimini. Nessuno si permetteva di assaggiarle. Solo quelle che non erano perfette esteticamente potevano essere consumate all’istante. Si facevano quindi le trusce che noi ragazzini portavamo a parenti o vicini di casa per condividerle, mentre avremmo dovuto aspettare i giorni prima del Natale prima di commettere quel lecito peccato di gola.

Di Nino Raineri

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RedazioneSiciliaReporter