Prima che diventasse un metodo, il lavoro del pool antimafia di Palermo dovette fare i conti con gli scettici. Il gruppo messo su da Rocco Chinnici, ucciso nell’83, e poi guidato da Antonino Caponnetto fino all’88, venne persino additato di fare “turismo giudiziario”, che consisteva nel seguire da vicino le indagini, andare nei luoghi dove portavano gli elementi man mano acquisiti.

“Ci spostavamo ovunque – ricorda Giuseppe Di Lello, che del pool di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino fece parte insieme a Leonardo Guarnotta e al giovane Ignazio De Francisci -, contravvenendo alla prassi di delegare burocraticamente le indagini fuori da Palermo a giudici di altri distretti, che nulla sapevano delle nostre inchieste e che raramente potevano esserci d’aiuto. Questo nuovo modo di operare ha dato credibilità al pool e ha portato a notevoli risultati”.

Una “rivoluzione” che si sarebbe potuta fare anche prima, se la mafia non fosse stata considerata “un fenomeno oscuro – aggiunge Di Lello – e impenetrabile. Invece, siamo entrati nelle banche, che Cosa nostra riteneva dei santuari impenetrabili; nelle Camere di commercio, esaminando gli intrecci societari”.

Quel gruppo di pionieri istruì il primo maxi processo che nell’86 portò alla sbarra 475 imputati. “Lo Stato ci diede una mano – spiega Di Lello – trasferendo a Palermo investigatori di primo livello, alcuni dei quali sacrificarono la loro vita. Il nostro lavoro fu preceduto dalle intuizioni di magistrati impareggiabili, come Cesare Terranova e Gaetano Costa”.

Nel novembre 1985 (in coincidenza con il deposito dell’ordinanza di rinvio a giudizio dei 475), all’ufficio istruzione arriva Ignazio De Francisci, che allora aveva 33 anni. De Francisci era legato all'”estroverso e gioviale” Paolo Borsellino, che un anno dopo andò a dirigere la procura di Marsala.

“Rimasi con Falcone – dice – che aveva un carattere diverso, era riservato, un po’ timido. Prudente e realista, da lui imparai moltissimo. Falcone e Borsellino si completavano perfettamente e quelli sono stati gli anni più importanti della mia ultraquarantennale carriera”.

Quando nell’89, in piena stagione dei veleni, Falcone passò alla procura (era appena entrato in vigore il nuovo Codice), De Francisci, su suggerimento dell’amico, lo seguì: “Arrivai nel febbraio ’91, un mese prima che Giovanni si trasferisse a Roma, nel pieno scontro tra lui e il procuratore Pietro Giammanco. Non sapevo molto dei loro dissidi, ma il clima era incandescente.

Quando Falcone lasciò la procura, rimasi ‘ostaggio’ dei suoi nemici: non avevo alcuna intenzione di riposizionarmi sulla linea del capo”.
    De Francisci ricorda il documento firmato da otto sostituti e inviato al Csm per chiedere la rimozione di Giammanco: “Questo episodio viene spesso ignorato, ma fu un momento importante. Il Consiglio superiore non decise alcun trasferimento, perché, dopo la strage di via D’Amelio, Giammanco chiese di andare in Cassazione”.

De Francisci, da poco in pensione dopo l’incarico alla procura generale di Bologna, ricorda l’ultimo incontro con Borsellino: “Avvenne il giorno prima della sua morte. Era appena tornato da Roma e venne in procura, in anticamera ci accennò a quello che aveva appena saputo da Gaspare Mutolo e che avrebbe dovuto verbalizzare”. Non ci fu il tempo.

Fonte: ANSA.IT