I depistaggi su Paolo Borsellino erano cominciati quando il magistrato era ancora in vita e come capo della procura di Marsala aveva promosso importanti inchieste sulla mafia.

Nei ricordi di Massimo Russo, che a quel tempo era uno dei sostituti che lavoravano al fianco di Borsellino, riaffiora il caso di Vincenzo Calcara, pentito molto loquace ma con tante ombre.

Un giorno Calcara si presentò dal magistrato, lo abbracciò e confessò di essere stato incaricato di ucciderlo con un fucile di precisione.
Solo dopo qualche tempo si scoprì che Calcara aveva inventato quella e tante altre storie. “Non era vero nulla, Calcara non era nessuno nella mafia”, dice Russo per il quale si stava in quel momento sperimentando un depistaggio con molte analogie con il caso di Vincenzo Scarantino. Calcara è da considerare quindi un “depistatore ante litteram”.

La sua “confessione” non ha prodotto altre conseguenze a differenza di quella confezionata attraverso Scarantino che a distanza di trent’anni continua a produrre effetti devastanti nella ricerca giudiziaria della verità. Due le criticità individuate da Russo per spiegare il grande depistaggio: una “caduta professionale da parte dei magistrati che fino alla Cassazione non hanno saputo sventare la colossale bugia e un debole filtro critico dell’informazione”.

Al tempo in cui, da procuratore di Marsala, Borsellino rischiava di essere perfino sanzionato dal Csm per le sue denunce sul calo di tensione nella lotta alla mafia ai giovani colleghi raccomandava: “Distinguere sempre le persone dalle istituzioni che rappresentano”. Dopo trent’anni Massimo Russo ricorda quel messaggio come una “grande lezione civile”. Lo era soprattutto per lui, che da gip era passato in procura anche per la forza attrattiva che esercitava la storia professionale del nuovo capo. Borsellino non era solo il magistrato autorevole e impegnato ma anche il “collega della porta accanto che aveva con i suoi sostituti un rapporto umano, gioviale e fraterno”.

Tra le indagini promosse a quel tempo dalla procura di Marsala c’era anche quella sulla guerra di mafia di Partanna, affidata ad Alessandra Camassa, che raccolse il contributo di Piera Aiello e di Rita Atria. Proprio con Atria, che aveva solo 17 anni, Borsellino aveva stabilito un rapporto così forte che la giovane decise di suicidarsi: con la strage le era venuta a mancare la figura paterna che non aveva mai avuto.
    Borsellino era intanto rientrato a Palermo come procuratore aggiunto. Quasi un mese prima che fosse assassinato, Russo e Camassa andarono a trovarlo. “Trovammo – ricorda Russo – un uomo piegato dal dolore per la fine di Giovanni Falcone. Aveva le lacrime agli occhi. Si abbandonò sul divano. ‘Un amico mi ha tradito’, disse. E aggiunse di sentirsi in un ‘nido di vipere’.

Sul momento pensammo a uno sfogo segnato dall’amarezza. Quando ci rendemmo conto che in quelle parole c’era il senso di un grande dramma umano ne abbiamo riferito anche in aula”. Borsellino aveva chiaro il seguito della storia. E per questo mostrò a Russo e Camassa la sua condizione di un uomo molto provato. 

Ansa.it